Una conquista rimessa in discussione
Settant’anni fa, dopo gli orrori della Seconda guerra mondiale la comunità internazionale si è riunita e ha adottato la «Dichiarazione universale dei diritti umani». Su questo documento poggia oggi un complesso sistema internazionale volto a tutelare i diritti umani. Ma tali principi sono viepiù messi in discussione sia nei Paesi del Sud sia in Europa.

Autore: Samuel Schläfli
Mohammad Musa Mahmodi avrebbe molto da raccontare su cosa significhi vivere in un Paese in cui i diritti umani vengono sistematicamente calpestati da tutte le parti in conflitto, sebbene siano stati inclusi nella Costituzione afgana nel 2008 e sebbene l’Afghanistan sia membro fino al 2020 del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. Nell’intervista condotta tramite Skype a fine luglio, il direttore della Commissione indipendente per i diritti umani in Afghanistan (AIHRC) illustra da Kabul eventi di stretta attualità. Ci racconta, per esempio, che il giorno prima della nostra conversazione, 14 civili sono rimasti uccisi in un attentato. «Senza alcuna ragione! Semplicemente perché vivevano in un’area controllata da combattenti talebani e dall’ISIS».
Per rappresaglia a decisioni del governo e per ricattare la popolazione, negli ultimi mesi i talebani hanno chiuso dozzine di scuole e ospedali. In Afghanistan il diritto umano fondamentale alla vita, alla libertà e alla sicurezza dell’individuo è violato quotidianamente, non soltanto dai talebani e dai seguaci dello Stato islamico, ma anche da gruppi armati di saccheggiatori, dagli attacchi di droni e dalle autorità governative corrotte. «La cosa peggiore del mio lavoro è guardare negli occhi persone molto potenti delle quali so benissimo che violano sistematicamente i diritti umani», afferma Mahmodi. «Soprattutto quando si è molto piccoli e deboli».

Sovranità limitata a favore dell’umanità
Il 7 dicembre 1948 Eleanor Roosevelt, vedova del presidente americano Franklin D. Roosevelt, presentava la «Dichiarazione universale dei diritti umani» in una conferenza stampa a Parigi. Tre giorni dopo il testo veniva adottato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Per la prima volta la Dichiarazione fissava, in trenta articoli, i diritti civili, politici, economici, sociali e culturali fondamentali di ogni individuo. Gli Stati membri delle Nazioni Unite si impegnavano a perseguire «il rispetto e l’osservanza universale dei diritti umani e delle libertà fondamentali […] senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione […]». Dopo due conflitti mondiali, distruzioni e terribili genocidi, la Dichiarazione era una pietra miliare nella ricerca comune di un avvenire più pacifico. I membri delle Nazioni Unite, costituite appena tre anni prima, avevano riconosciuto che la sovranità degli Stati, in caso di mancato rispetto dei diritti umani fondamentali, aveva dei limiti.
Tuttavia, fin dalla sua proclamazione la Dichiarazione è imperfetta: non è mai stata giuridicamente vincolante, né tantomeno lo sono le decisioni delle istituzioni preposte alla sua difesa, come, l’Alto commissariato per i diritti umani (UNHCHR) e il Consiglio per i diritti umani (CDU, vedi riquadro a pagina 11). Le sanzioni, le esclusioni e gli interventi possono essere decisi solo dal Consiglio di sicurezza e con l’accordo dei suoi cinque membri permanenti. Le convenzioni internazionali sui diritti umani, che sono state create successivamente e sono vincolanti ai sensi del diritto internazionale, prevedono meccanismi sanzionatori, ma spesso però non migliorano la situazione dei diretti interessati. Era quindi chiaro sin dall’inizio che il rispetto dei diritti umani andava salvaguardato e difeso giorno dopo giorno dai diplomatici delle Nazioni Unite, dai politici, dagli attivisti per i diritti umani e dagli avvocati come Mahmodi.
In pericolo in oltre 50 Paesi
Nonostante questa lotta su più fronti, negli ultimi anni si registra una tendenza preoccupante: 70 anni dopo essere stati riconosciuti, i governi rimettono sempre più spesso in discussione i diritti umani. Basandosi sulla Dichiarazione, l’ONG «Freedom House» con sede a Washington D.C. esamina annualmente i 195 membri dell’ONU in relazione ai diritti e alle libertà dei loro cittadini. I suoi esperti osservano che da dieci anni la situazione a livello globale si sta deteriorando. Non soltanto in Stati instabili come l’Afghanistan, ma anche in Europa: nell’ultimo decennio in Polonia, Ungheria e Turchia, Stati che avevano lanciato con successo processi di transizione e costruito sistemi democratici, è aumentata la repressione nei confronti di minoranze, oppositori e giornalisti. Nel mese di marzo, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani ha segnalato al CDU che attualmente i diritti umani sono gravemente minacciati in oltre 50 Paesi e che vengono sempre più spesso ignorati. La responsabilità è dei governi che non si sentono più obbligati a rispettare la Dichiarazione o altri trattati sui diritti umani, soprattutto a causa di questioni di politica interna e di interessi geostrategici.
A giugno Céline Barmet, assistente scientifica presso il Centro di studi sulla sicurezza del Politecnico di Zurigo, ha pubblicato un’analisi sulle attuali sfide legate ai diritti umani. «In generale si può dire che l’attuazione globale dei diritti umani è ancora insufficiente e che spesso deve cedere il passo a interessi economici, geostrategici e politici», afferma l’esperta. Ciò dipende anche dal fatto che il modello democratico occidentale, che si basa sul concetto di universalità, indivisibilità e interdipendenza dei diritti umani e sui diritti e sulle libertà individuali, sta subendo crescenti pressioni. «In questo momento l’aumento dell’intolleranza, l’intensificarsi dell’estremismo violento e religioso, le disparità economiche, gli effetti del cambiamento climatico e i movimenti migratori pongono i diritti umani dinanzi ad enormi sfide».

Sfollamenti e crisi umanitarie
La situazione dei diritti umani nel mondo è peggiorata molto negli ultimi due anni. Dal 2017 la comunità internazionale assiste senza muovere un dito all’espulsione di massa dei Rohingya dalla provincia birmana di Rakhine, espulsione che Amnesty International definisce una «pulizia etnica». Da molti anni, il Myanmar sta negando praticamente tutti i diritti umani, inclusi la cittadinanza e l’accesso ai servizi sanitari alla minoranza musulmana dei Rohingya. Oltre 655 000 persone sono fuggite in Bangladesh.
E non è certo l’unico esempio recente di violazioni dei diritti umani: basta osservare le catastrofi umanitarie in Yemen, Sudan del Sud o Siria, dove la popolazione civile soffre la fame e non ha accesso all’assistenza sanitaria, all’acqua pulita o all’istruzione. L’alloggio e la proprietà non esistono più e sono completatamene scomparsi il buongoverno, lo Stato di diritto o l’accesso alla giustizia.
Anche nel cosiddetto mondo occidentale il rispetto dei diritti umani, inclusi quelli all’asilo o al libero sviluppo della propria personalità, suscita oramai accese discussioni e non è più scontato. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, 6123 persone sono morte nel tentativo di attraversare il Mediterraneo nel 2017. Questa non è solo una tragedia umanitaria, ma è anche una crisi della Dichiarazione universale dei diritti umani. Le donne migranti dall’America latina sono separate dai figli alla frontiera con gli Stati Uniti, nazione che in passato giustificava le proprie ambizioni geopolitiche anche con la diffusione globale della democrazia e dei diritti umani.

La credibilità dell’ONU è scalfita
Ma la crisi della Dichiarazione universale dei diritti umani è causata anche dalle stesse Nazioni Unite. Secondo Freedom House, 26 dei 47 membri del Consiglio per i diritti umani (CDU) di quest’anno non sono liberi, o solo in parte, di svolgere il proprio compito di vigilanza. Stati come l'Afghanistan, l'Egitto e la Cina non vogliono certo che il CDU analizzi la situazione nel loro Paese e che li critichi perché violano sistematicamente i diritti umani. In questo modo però viene danneggiata la credibilità del principale organismo internazionale preposto a fare rispettare questi principi fondamentali. È una situazione che avvalora la tesi dei governi populisti secondo i quali il CDU sarebbe inefficiente. Il 19 giugno l’ambasciatrice delle Nazioni Unite Nikki Haley ha annunciato il ritiro degli Stati Uniti dal CDU, apparentemente per la posizione critica nei confronti di Israele di quest’ultimo e perché starebbe proteggendo regimi disumani.
Il consiglio per i diritti umani delle nazioni unite (CDU)
Il CDU è il principale forum delle Nazioni Unite per le questioni legate ai diritti umani. Verifica la situazione sul fronte dei diritti umani in tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite, svolge un’importante attività di sensibilizzazione, crea standard internazionali in materia di diritti umani e ne promuove l’applicazione attraverso il dialogo, il rafforzamento delle capacità e l’assistenza tecnica. Uno dei principali strumenti del CDU è la «Revisione periodica universale» (Universal Periodic Review, UPR). Tutti gli Stati membri dell’ONU sono sottoposti a una verifica sul fronte dei diritti umani. Le raccomandazioni all’indirizzo dei singoli Paesi non sono giuridicamente vincolanti, pertanto l’efficacia dell’UPR dipende dalla buona volontà dello Stato.
«Il ritiro degli Stati Uniti è un affronto agli sforzi internazionali per i diritti umani», sostiene Céline Barmet. «Gli USA non hanno solo avuto un ruolo decisivo nel processo di fondazione delle Nazioni Unite, ma hanno anche plasmato il modello democratico occidentale della società, basato sui diritti umani». Oltre ad essere simbolica, la loro uscita potrebbe pure mutare durevolmente gli equilibri di potere in seno al CDU. «La Cina ha già assunto un ruolo più attivo in seno al Consiglio», afferma Barmet. «Il problema sta nel fatto che, dal punto di vista della Cina, il diritto allo sviluppo ha la precedenza su qualsiasi altro diritto umano inalienabile».

Il crescente disimpegno degli Stati dagli obblighi della Dichiarazione universale dei diritti umani preoccupa Mohammad Musa Mahmodi. «L’applicazione dei diritti umani è una responsabilità internazionale condivisa», dice l’avvocato. Soprattutto in Afghanistan, con la sua storia di occupazioni da parte di potenze straniere. Inoltre, un impegno condiviso è nell’interesse della comunità internazionale. «Se il nostro Paese dovesse cadere completamente nelle mani dei talebani, potrebbe diventare una roccaforte del terrorismo internazionale. E poi va ricordato che una simile situazione obbligherebbe ancora più afghani a lasciare il Paese per cercare rifugio in Europa».
Mahmodi è stato più volte in Svizzera, anche a Berna su invito della DSC. Per lui la Svizzera è un luogo di infinita tranquillità, una «terra di pace per eccellenza». Ma che nella terra della pace assoluta si sia votato per rendere possibile la denuncia della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali dimostra purtroppo che anche da noi, sempre più spesso, gli interessi nazionali e politici vengono anteposti ai 30 articoli della Dichiarazione universale dei diritti umani.

La Svizzera, centro globale per i diritti umani
L’impegno della Confederazione per il rispetto dei diritti umani è parte integrante della politica estera elvetica ed è ancorato come tale nell'art. 54 della Costituzione federale. La Svizzera è stata determinante per l’istituzione, nel 2006, del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite (CDU), del quale è membro per la terza volta dal 2016 e fino alla fine di quest’anno. Il CDU, così come l'Alto commissariato per i diritti umani hanno sede a Ginevra, città che dà il nome alle Convenzioni di Ginevra, parte integrante del diritto umanitario internazionale, di cui la Svizzera è depositaria. La Confederazione, inoltre, si sta adoperando per ottenere lo statuto di membro non permanente del Consiglio di sicurezza per il periodo 2023.2024, posizione che le permetterebbe di promuovere ancora di più il rispetto della Dichiarazione universale dei diritti umani.
La situazione in Svizzera sul fronte dei diritti umani
Dopo il 2008 e il 2012, nel 2017 la Svizzera è stata sottoposta per la terza volta a una «Revisione periodica universale» del CDU, ricevendo da 111 Stati membri delle Nazioni Unite 251 raccomandazioni specifiche per migliorare la situazione dei diritti umani. In primo piano c’erano la creazione di un’istituzione nazionale indipendente per i diritti umani, il rafforzamento della protezione contro la discriminazione (razzismo, migrazione, asilo, parità di genere, LGBTI), nonché la compatibilità del diritto di iniziativa con gli obblighi in materia di diritti umani. Di queste 251 raccomandazioni la Svizzera ne ha accettate 160 e respinte 91.
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